Non solo vele e tessuti: nel cuore di Venezia, la canapa servì a sollevare le colonne di San Marco. Una storia di ingegno, materia e artigianato che racconta quanto la fibra naturale sia intrecciata con la nostra storia.
Le due colonne di piazza San Marco — quella con San Teodoro e quella con il leone — dovevano essere originariamente tre. La terza andò perduta durante lo sbarco. Le altre due, una volta scaricate, rimasero adagiate a terra per oltre un secolo: nessuno riusciva a capire come sollevarle.
Fu un artigiano bergamasco, Nicolò Stratonio, a risolvere il problema. Era già noto per i suoi montacarichi a contrappeso — gli stessi usati per innalzare il campanile di San Marco — e per la costruzione del ponte della Moneta, l’antenato del ponte di Rialto.
Stratonio inventò un sistema semplice e geniale, che prese il nome di “acqua alle corde”. Sfruttò la proprietà delle corde di canapa: quando vengono bagnate, aumentano di diametro e si accorciano. Fissò le basi delle colonne in una buca, fece passare le corde lungo la superficie e le ancorò a terra in lontananza. Bagnandole, la contrazione della canapa tirò lentamente le colonne verso l’alto, permettendo di inserire spessori e alzarle completamente in verticale.
Un gesto di pura ingegneria artigianale, basato su osservazione, materia e conoscenza dei materiali naturali. Da quell’impresa, la Serenissima decise di premiare Nicolò: gli concesse l’unica licenza per il gioco dei dadi, vietato in tutta la città. Da allora, fu conosciuto come Nicolò Barattiere — colui che gestiva il banco da gioco — e la famiglia portò sullo stemma tre dadi, simbolo di quell’invenzione che unì fortuna e ingegno.
Oggi quella storia resta una lezione. La canapa non era solo una fibra, ma una tecnologia naturale. Capace di sollevare colonne, di muovere vele, di costruire ponti. E ancora oggi, di tenere insieme passato e futuro.
